Bilancio della guerra in Irak. Invasione imperialistica, movimento contro la guerra, prospettive

Dopo tre settimane di guerra le truppe dell’imperialismo statunitense e dei suoi alleati hanno occupato i centri iracheni. Nonostante una resistenza inizialmente consistente le unità irachene sono state alla fine addirittura distrutte dalla superiore macchina militare americana. L’esercito iracheno era già prima della guerra ampiamente disarmato, dotato di apparecchiature obsolete e si trovava a causa dell’embargo in una situazione di decadenza. Il suo bilancio annuale ammontava al 10% di quello precedente la guerra del 1991. Di fronte a ciò il bilancio militare americano è con 379 miliardi di $ grande quanto quello dei 19 paesi seguenti e il solo finanziamento aggiuntivo di 70 miliardi di $ richiesto ora da Bush jr è maggiore dell’intero PIL iracheno che è di 57 miliardi di $. Un solo missile del tipo Tomahawk Block II costa 600mila $, circa 750 di questi missili sono stati sparati sull’Irak nelle ultime settimane.

Di fronte a questi rapporti di forza l’esito della guerra sul piano militare non poteva essere assolutamente in discussione.  Politicamente la grande maggioranza della popolazione irachena è stata ed è sicuramente contro gli invasori imperialisti, mentre molti semplicemente non hanno visto alcuna possibilità di resistenza oppure non sono stati nemmeno disponibili a morire per il regime Baath – anche perché questo regime non era in grado di offrire alcuna prospettiva, come noi già nel 1999 nel bilancio dell’aggressione NATO contro la Jugoslavia avevamo -generalizzando – valutato: “La speranza di alcuni personaggi di sinistra che dalla Jugoslavia potesse sortire un nuovo Vietnam per l’imperialismo è stata dal bell’inizio illusoria. Stati o movimenti di liberazione nazionale che lottano contro l’imperialismo non hanno più la possibilità di appoggiarsi all’Unione Sovietica e sono nel loro isolamento più o meno esposti a subire impotenti l’intervento imperialistico. Movimenti di sinistra per la liberazione nazionale, come a Cuba e in Vietnam, non sono riusciti – essenzialmente anche a causa della concezione stalinista di evoluzione a tappe – a sviluppare una prospettiva internazionalista di espansione sistematica della rivoluzione e sono diventati appendici dell’Unione Sovietica, finendo nel vicolo cieco della burocrazia. I regimi nazionalisti reazionari come quelli in Serbia, Iraq o Iran sono ancor meno in grado di avere un orientamento internazionalista. Essi combattono in realtà unicamente per un’illusoria migliore posizione delle proprie classi dominanti all’interno del sistema imperialista. Tali regimi o movimenti possono offrire solo la mancanza di prospettiva per una lotta effettiva contro l’ordine imperialistico, caratterizzato da oppressione e sfruttamento. Tuttavia solo davvero pochi iracheni si sono prestati esultando ad appoggiare i “liberatori” imperialisti. Nella stessa Baghdad, città con 5 milioni di abitanti, sono stati solo alcune centinaia, abbigliati con semplici magliette, coloro i quali hanno dato appoggio alla marionetta americana Achmed Chalabi, nonostante gli sforzi dei media occidentali.

Il fatto che i militari statunitensi sorveglino gli impianti petroliferi mentre gli ospedali, in cui muoiono migliaia di vittime della guerra, vengono saccheggiati sotto i loro occhi, ha reso più che evidenti le intenzioni degli invasori. Il numero reale delle vittime civili dei bombardamenti e dell’impiego delle munizioni all’uranio vengono solo progressivamente rese note. All’infuori di alcuni idioti editorialisti, proprio nessuno crede che ai protettori inglesi e americani delle dittature in Arabia Saudita, Kuwait, ecc. interessino ora espressamente in Iraq la democrazia e i diritti umani.

Movimento contro la guerra

Effettivamente la guerra avrebbe potuto essere fermata solo da un movimento di massa nella regione e nei maggiori centri imperialisti. Il movimento contro la guerra in Iraq è stato considerevole. In Gran Bretagna, Stati Uniti, Spagna, Italia, Germania, Francia, Grecia, Australia e in molti Paesi islamici, a centinaia di migliaia sono scesi in piazza e a metà febbraio hanno dimostrato in tutto il mondo dai 15 ai 20 milioni di persone. Tuttavia il movimento è stato nel suo insieme troppo debole per compromettere seriamente la campagna militare di Stati Uniti & Co. E il fatto che – cosa che noi già in novembre avevamo valutato per il Vicino e Medio Oriente –  che fosse improbabile il crollo dei regimi a favore dell’imperialismo “dal momento che i movimenti antimperialisti di quella zona non dispongono di alcuna guida coerente”, si è dimostrato vero anche per i Paesi imperialisti. Negli stessi Paesi “volenterosi”, dove la grande maggioranza della popolazione era contro la guerra (Spagna, Italia, Gran Bretagna, Australia), nessun governo guerrafondaio ha potuto essere costretto alle dimissioni. In Germania la pressione non è stata forte abbastanza da impedire un ulteriore utilizzo delle basi americane e dello spazio aereo. Il movimento –  nonostante alcune sospensioni del lavoro e azioni di blocco in Gran Bretagna e nei paesi del sud dell’Europa – è stato troppo poco un movimento della classe operaia organizzata e nelle aziende, movimento che avrebbe potuto paralizzare tramite scioperi l’attività di produzione e trasporto dei paesi partecipanti alla guerra.

E nonostante singoli rifiuti di soldati di farsi trasferire nel Golfo, anche negli eserciti imperialisti c’è stata un’esigua resistenza  non in grado di sabotare la macchina militare. Ciò dipende da un lato chiaramente dalla breve durata della guerra, ma dall’altro anche dai rapporti politici di forza nel movimento, sia negli Stati Uniti che in Europa. Particolarmente importante è stata naturalmente l’opposizione alla guerra negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Il movimento contro la guerra negli Stati Uniti ha avuto però sin dall’inizio un notevole risvolto patriottico (per es. lo slogan “Peace is patriotic!”) e molti dirigenti sindacali in America ed anche in Gran Bretagna, che prima della guerra si erano mostrati critici, sono capitolati di fronte alla compagna “Support our troops!”.

Su entrambe le sponde dell’Atlantico ci sono state forti tendenze pacifiste orientate verso l’ONU, le quali sono indietreggiate di fronte al fatto di parteggiare per la sconfitta della coalizione con a capo gli Stati Uniti, o meglio erano del tutto disponibili ad una sottomissione dell’Iraq legittimata dall’ONU. Quest’ultima posizione è stata spesso anche preda di illusioni nei governi apparentemente “pacifici” di Francia e Germania e si è combinata in Europa con correnti antiamericane. Questo antiamericanismo si è esteso fino all’estrema sinistra che, con slogan stantii come “Down, down USA”, ha voluto ricollegarsi ad una coscienza arretrata e ha voluto in parte concentrare la lotta esclusivamente su Bush e Blair, reagendo in modo quasi allergico ad ogni critica nei confronti dell’imperialismo europeo.

Per quanto l’imperialismo americano sia oggi l’aggressore principale e per quanto il movimento contro la guerra debba dirigersi soprattutto contro di esso, l’asse franco-tedesco ha sempre condotto e conduce ancora delle guerre (nel 1991 in Jugoslavia, oggi in Africa occidentale) e così le maggiori potenze europee agiscono anche loro in Medio Oriente per interessi imperialistici. La sinistra anticapitalista nell’Unione Europea ha dovuto perciò prendere subito posizione all’interno del movimento contro la guerra contro gli umori antiamericani, dentro i quali in definitiva si annidano tendenze socialpatriottiche.

Appelli al boicottaggio di prodotti americani, propagandati pure da alcuni radicali di sinistra, vanno proprio nella direzione sbagliata. Essi non solo indicano la scelta di consumo individuale piccolo-borghese come prospettiva di lotta (invece della lotta di classe), ma hanno anche una radice nazionalista. A Vienna un’iniziativa pacifista di boicottaggio ha portato questa logica fino alle sue estreme conseguenze e dopo aver stilato un elenco di tutti i prodotti americani da non comprare, ha sostenuto che attraverso le proprie scelte d’acquisto si debba stare dalla parte della vecchia Europa. Qui l’antiamericanismo conduce del tutto chiaramente ad un’alleanza interclassista tra la borghesia tedesca, francese, austriaca, greca o belga. Le sinistre europee, che agiscono in tale direzione, corrono almeno il pericolo – anche involontariamente – di passare per gli utili idioti dell’imperialismo europeo. Bisogna ricordare Karl Liebknecht e il suo slogan per il movimento operaio nei paesi imperialisti: il nemico è in casa nostra!

Retroscena e risultati della guerra

Il risultato immediato della campagna militare contro l’Iraq è un chiaro rafforzamento dell’imperialismo americano ed un successo per i sostenitori della guerra preventiva che stanno attorno al vicepresidente Dick Cheney, al ministro della difesa Donald Rumsfeld ed al suo vice Paul Wolfowitz. Questa volta, dopo Jugoslavia 1999 e Afghanistan 2001, non solo è stato possibile fare di nuovo una guerra senza il mandato dell’ONU, ma essa è stata pure condotta con successo contro la volontà di importanti alleati. Il diritto degli Stati Uniti, esplicitamente formulato nel “Piano strategico di sicurezza nazionale” a settembre 2002, di intervenire ovunque a proprio piacimento con la guerra preventiva è stato ulteriormente fissato. A nessuno può essere consentito anche soltanto di avvicinarsi alla superiorità militare degli Stati Uniti. Questo concetto risale certamente ad un piano strategico del Pentagono presentato già nel 1992. In esso è stabilito che, per impedire che di nuovo sorga un concorrente della statura dell’Unione Sovietica, sarebbe necessario che gli Stati Uniti impedissero alle altre metropoli di dominare una regione le cui risorse, passando sotto il loro diretto controllo, sarebbero sufficienti a farle diventare una nuova grande potenza e a mantenere quei meccanismi che sottraggono ai possibili concorrenti ogni speranza in un maggiore ruolo regionale o globale.

L’influente commentatore Thomas Friedman ha espresso ancor più precisamente questi nessi: “Perché la globalizzazione funzioni, l’America non dovrebbe avere paura di agire come superpotenza assoluta quale essa è. L’invisibile mano del mercato non funzionerà mai senza il costruttore degli F15 Mc Donnel Douglas. E l’invisibile pugno che fa sì che il mondo sia sicuro per le filiali dei Mc. Donalds e per le tecnologie della Silicon Valley si chiama Esercito, Marina, Aviazione americane e corpo dei Marines”.

La piena supremazia su tutti i Paesi e sulle possibili alleanze cui tende il governo statunitense presuppone, oltre alla superiorità militare, il controllo sui più importanti giacimenti di gas e petrolio del mondo (tanto più che la dipendenza degli Stati Uniti dal petrolio importato potrebbe aumentare, entro il 2020, dal 50% al 70% del fabbisogno globale). Conformemente a ciò già nell’estate del 1998 lo stratega americano David Tucker, vicino al gruppo di Bush, Cheney, Rumsfeld, ha argomentato che esisterebbe solo una regione per la quale valga davvero la pena di combattere, e precisamente “l’area che si estende a nord dal Golfo Persico fino al Mar Caspio e ad est fino all’Asia centrale”.

Dopo la riuscita stabilizzazione in Asia centrale con la guerra in Afganistan l’Iraq è finito a sua volta nel mirino. Dopo sei giorni dall’attentato al World Trade Center Rumsfeld ha dato l’ordine di pianificare concretamente l’attacco all’Iraq, ma già prima dell’attentato Wolfowitz e il consigliere di sicurezza Condoleeza Rice avevano dichiarato: “Attaccheremo Baghdad non appena troveremo la giusta strada per farlo”. Già da anni l’industria petrolifera e l’industria militare americane si erano prefigurate la guerra in Iraq e Antony Cordesman, un importante analista dell’imperialismo americano del CSIS, ha formulato ad inizio agosto 2002  i reali motivi della guerra: “Gli Stati Uniti si troveranno a condurre la prima grande guerra preventiva della loro storia. Se gli Stati Uniti cominceranno una guerra contro l’Iraq non sarà a causa di un precedente atto di aggressione iracheno, né a causa di prove certe del terrorismo iracheno, né tantomeno a causa del riarmo iracheno. Indipendentemente da ciò che noi diciamo pubblicamente, lo faremo perché l’Iraq si trova al centro di una regione con più del 60% delle riserve petrolifere mondiali. Avremo un solo alleato realmente coinvolto militarmente: la Gran Bretagna. Questa volta sarà una coalizione di 2 stati, non di 21. E sarà pure una coalizione con poco sostegno della popolazione locale e con grande rabbia della popolazione.”

Con questa guerra l’imperialismo americano ha realizzato in buona parte i propri obiettivi. Un regime che ha nazionalizzato il cartello petrolifero occidentale in Iraq e che non ha obbedito ad ogni imposizione proveniente da Washington è stato rimosso  e dopo che già prima sono state insediate truppe in Pakistan, Afghanistan, Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan, Georgia, Azerbaigian, Turchia, Israele, Giordania, Egitto, Kuwait, Arabia Saudita, Qatar, Oman, Yemen, Eritrea e Kenia, i militari americani controllano ora anche l’Iraq, strategicamente centrale, e le sue materie prime. Il capitale americano e in particolare le imprese in stretti rapporti con la cricca al governo negli Stati Uniti approfitteranno adeguatamente di questo. (vedi riquadro)>>

Con la guerra l’imperialismo americano è inoltre riuscito a creare fratture nell’UE e ha giocato Gran Bretagna, Spagna, Italia e gli Stati dell’est che entreranno in seguito all’allargamento dell’UE contro l’asse franco-tedesco. Esso ha fatto rivivere l’isteria patriottica negli Stati Uniti, che dopo l’11 settembre 2001 ha avuto un grande riscontro e contemporaneamente ha accelerato militarizzazione e repressione nella società americana. Ciò non significa però che in seguito alla guerra in Iraq non sorgano nuove contraddizioni e problemi per i sostenitori americani della guerra preventiva.

Contraddizioni e prospettive

Anche se la campagna militare americana è stata coronata dal successo, i nuovi colonizzatori potrebbero incontrare notevoli difficoltà nella regione. Un movimento di massa antimperialista e antioccidentale che si ampliasse nello stesso Iraq potrebbe far salire alle stelle il prezzo militare, finanziario e politico per l’occupazione, acuire i conflitti tra occidente e mondo arabo e destabilizzare i regimi filoamericani nella regione. A dire il vero le forze politiche che emergerebbero in una potenziale ribellione non potrebbero offrire alcuna conseguente prospettiva antimperialistica. Le organizzazioni islamiche sciite in Iraq, dal momento che non mettono in discussione i rapporti di proprietà e produzione, tenderebbero però in fin dei conti, come l’insieme delle correnti islamiche, a rifare la pace con il sistema imperialistico mondiale e si orienterebbero, nel caso concreto forse appoggiandosi all’Iran, verso l’Unione Europea. Il movimento operaio nei Paesi arabi è però piuttosto debole.

Il grande partito comunista iracheno è stato battuto nella seconda metà degli anni 70 dal regime Baath, l’attuale appello dei partiti comunisti in Giordania, Sudan, Siria, Libano ed Egitto è caratterizzato dalla preoccupazione per i rapporti internazionali e da un orientamento verso la stella polare dell’ONU. Inoltre la fissazione di uno stabile ordine pro-imperialistico nel dopoguerra in Iraq per Bush, Rumsfeld e Blair cela alcune trappole. Una forte rivoluzione degli sciiti iracheni potrebbe accrescere l’influsso dell’Iran. Se gli occupanti puntassero ad un nuovo centro sunnita, la maggioranza sciita della popolazione si orienterebbe tutt’al più verso l’Iran.

Ad una futura offensiva imperialista contro l’Iran potrebbe prestarsi addirittura una strumentalizzazione delle minoranze in Iran, gli arabi del Kusistan (Iran sud-occidentale), la minoranza dell’Azerbaigian (Iran nord-occidentale), i Belusci (Iran orientale) e soprattutto i Curdi (Iran occidentale). Quest’ultima questione presupporrebbe però che i Curdi iracheni fossero almeno in una certa misura ricompensati per il loro servizio di soccorso pro-imperialista con un’ampia autonomia, cosa che creerebbe nuovi problemi con la Turchia.

Nel caso di un attacco americano alla Siria si tratterebbe soprattutto di una pacificazione reazionaria in Palestina. Dopo un’eventuale caduta del regime Baath in Siria, probabilmente accompagnata da una rivolta del Libano, che attualmente è sotto l’influsso della Siria, Israele e Palestina rimarrebbero circondate solo da regimi-marionetta filo-occidentali e sarebbe tolto ogni retroterra alle organizzazioni palestinesi più radicali.

Su questa base, con alcune minime concessioni da parte israeliane, potrebbe essere proclamato uno stato palestinese del tutto dipendente e assoggettato. Questa potrebbe essere anche l’avvio per l’utilizzo imperialistico degli oleodotti da Mosul/Kirkuk ai porti siriani di Bania e Tartus, e per la riapertura dell’oleodotto israeliano di Haifa, chiuso dopo la fondazione di Israele, la qual cosa affrancherebbe per di più Israele, il manutengolo centrale dell’imperialismo americano, dagli alti costi per l’importazione di petrolio dalla Russia.

Che la macchina militare americana continui a marciare verso la Siria e/o l’Iran, dipenderà però tra l’altro da una stabilizzazione raggiunta in qualche modo in Iraq. Quest’ultima questione avrà effetto sulla velocità con cui i costi della guerra, che appesantiscono considerevolmente il bilancio americano, potranno essere compensati dallo sfruttamento dei giacimenti petroliferi iracheni.

Queste questioni avranno effetti sulla congiuntura americana e di conseguenza sull’economia mondiale. Gli obiettivi della dottrina di sicurezza americana si sono

– tramite la guerra – a dire il vero realizzati in rilevante misura. Tuttavia è emerso per la prima volta  ad opera di Francia e Germania un’alleanza imperialista che si oppone apertamente agli Stati Uniti ed è assolutamente possibile che intorno all’asse franco-tedesco si formi a media scadenza un blocco europeo intenzionato a sfidare gli Stati Uniti. La Gran Bretagna, le cui ditte in Iraq adesso di fronte agli amici di Cheney e Rumsfeld saranno svantaggiate, si è già chiaramente distinta nelle questioni da un lato dell’attacco alla Siria e dall’altro del ruolo dell’ONU nell’Iraq postbellico. E anche la Russia e la Lega Araba, i cui governi corrotti hanno dovuto sotto la pressione della popolazione prendere posizione verbalmente per un rapido ritiro delle truppe occidentali dall’Iraq, si stanno offrendo come alleati. La Francia, la Germania e il Belgio sembrano inoltre voler affrontare in maniera accelerata la costruzione di un esercito europeo. Per il movimento antimperialista o anticapitalista contro la guerra, per la sinistra e il movimento operaio sarebbe a dire il vero fatale puntare sull’UE come su una specie di contrappeso alla politica aggressiva degli Stati Uniti. Francia, Germania &.Co. agiscono pertanto oggi in maniera diversa dagli Stati Uniti solo perché non hanno a disposizione i necessari mezzi militari. Ma le loro intenzioni e i loro obiettivi sono gli stessi: lo sfruttamento imperialistico di regioni economicamente interessanti, tra le quali quelle del Medio Oriente. Se a loro converrà troveranno di nuovo un accordo con Bush e Rumsfeld e come l’ONU legittimeranno guerre di aggressione imperialiste. L’unica cosa che può mettere in pericolo realmente l’imperialismo è un movimento operaio internazionalista organizzato internazionalmente che possa attaccare il sistema nel suo centro, e cioè nella produzione capitalistica. Un movimento contro la guerra può sfidare seriamente i guerrafondai se non si abbarbica all’ONU e se non viene dominato dai pacifisti e dai riformisti. A tale scopo è necessario un mutamento dei rapporti di forza nella sinistra e nel movimento operaio. Per questo la costruzione di organizzazioni rivoluzionarie è e rimane il compito principale.

Traduzione di vr e rdb – circolo operaio di udine